Un elettore vicentino su tre si è voluto esprimere, ha scelto la democrazia diretta e autogestita per dire no all’ampliamento della base militare Usa in un territorio già gravato da troppe servitù militari. Un elettore su tre ha voluto «mandare un consiglio» agli organi amministrativi centrali, a quel Consiglio di stato che, a quattro giorni dal referendum, ha deciso in modo assolutamente politico e autoritario di cancellarlo perché «inutile»: un intervento «miserevole», ha commentato il sindaco Variati. Venticinquemila cittadini hanno inviato al commissario governativo Costa, nominato da Prodi e confermato da Berlusconi, un messaggio inequivocabile: la democrazia non è inutile. Dovrà ricordarselo per forza, dopo avere in modo sprezzante, a sei giorni dal referendum, consegnato il territorio rivendicato dal Comune, dalla parte più attiva della cittadinanza e dai comitati No Dal Molin, direttamente agli Stati uniti, ad una potenza straniera che impegna quella base in prima linea nelle sanguinose guerre che ha in corso. In concreto vuol dire che ora, pur di fronte al fatto compiuto, la decisione di allargare la base Dal Molin appare meno scontata, più costosa politicamente e tutta ancora da decidere, non dimenticando anche la prossima decisione del Tar sul ricorso del Codacons. È cresciuto il peso politico di chi dice No e lo conferma contro tutto e tutti, non dimenticando di ammonire a non interpretare il voto di chi a votare non ci è andato. Ora il valore della scelta di Vicenza chiama in causa quel grumo in difficoltà e spesso impresentabile della sinistra scomparsa, che si dibattite tra un Pd perso nelle nubi mediatiche e parlamentari e una sinistra che, persa la colorazione arcobaleno, stenta, divisa, a ricostruire una sua identità alternativa al sistema dato che precipita. Vicenza manda a dire che un forte e radicato movimento trasforma il ruolo rappresentativo delle stesse istituzioni ufficiali. Il sindaco Variati non solo è stato all’altezza dello scontro politico imposto dal governo, ma ha portato in piazza la volontà di chi si è sempre battuto contro la sottrazione, manu militari, di una parte significativa del proprio territorio, pur insistendo di più sulla destinazione civile dell’area per la città e meno sulla portata internazionale, contro la guerra, del no a quella scelta. Non solo, in una fase di disastro della politica, il «caso vicentino» ha richiamato a ruolo i vari frantumi sparsi dell’opposizione intorno ai gazebo, veri anche se sospesi tra l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione. È stata poi una bestemmia in più, quanto a difesa reale delle autonomie locali, in quel Nord-est in mano ai privilegi della Lega, nella capitale del «parlamento padano» – con tanto di condanna del presidente regionale Galan – e, significativamente, negli stessi giorni dell’approvazione del cosiddetto «federalismo fiscale». Viene in mente la riflessione sulla «sterritorializzazione» del centrosinistra, base e risultato dell’ultimo, drammatico terremoto elettorale dell’aprile scorso, della quale parlava un’analisi di Ilvo Diamanti che, non a caso, metteva a confronto il disastro elettorale di Roma con l’affermazione a Vicenza del centrosinistra, tutto schierato contro l’allargamento della base Usa. Ancora una volta, con la decisione presa da un terzo dei cittadini di essere opposizione sociale e politica alle volontà bipartisan, al governo di centrodestra, al Consiglio di stato, Vicenza «consiglia» che, forse, non tutto è perduto, che una alternativa di sinistra è ancora possibile. A patto che non resti sola.